QUIET QUITTING': LA RIVOLUZIONE DEL LAVORO E' IN ATTO, COME POSSIAMO CAVALCARLA?


QUIET QUITTING: DI COSA SI TRATTA

La nuova frontiera con cui si deve confrontare il mondo del lavoro si chiama "quiet quitting”: un termine che ci dice poco, ma che si chiarisce subito se, invece che tradurlo letteralmente “abbandono silenzioso”, lo parafrasiamo in questo modo: “fare lo stretto necessario”

Ebbene sì: la nuova tendenza che sta dilagando tra i lavoratori - soprattutto in seguito alla pandemia da Covid19 che ci ha costretto in casa imponendoci non di rado profonde (e non sempre facili) riflessioni sulle nostre vite - è quella di ‘tagliare’ le energie dedicate al lavoro, ridurne il tempo da dedicargli, delegittimare la visione che gli attribuiva il ruolo di protagonista delle nostre vite e rispetto al quale ogni cosa era subordinata: lo svago, le relazioni, persino la stessa salute.

Dopo anni e anni di workaholism, letteralmente ”dipendenza dal lavoro”, spuntano ora vigorosi dal terreno della ribellione interiore dei “paletti” al nostro modo di confrontarci con la dimensione lavorativa che ne delineano la volontà di non farci più assorbire completamente da essa, di ritrovare degli spazi di vita propri, spazi di libertà in cui tornare ad essere persone (uomini, donne, ragazzi, genitori, amici, fidanzati, zii, nipoti ecc.), esseri sociali calati in un contesto di relazioni, di desideri e di responsabilità che sono anche e inevitabilmente extra lavorative e che non ammettono più di dover rinunciare ad esserlo. 


BILANCIAMENTO "VITA-LAVORO": SALUTE, RELAZIONI PERSONALI E TEMPO LIBERO TORNANO ALLA RIBALTA

Niente più iperattività e iper-reperibilità, insomma, niente più straordinari ( se non strettamente necessari), niente più lavoro da portarsi a casa volontariamente e inevitabilmente, niente più 'lavoro sopra a ogni cosa'. Un’era sembra destinata ad un profondo mutamento, e già li sento i lamenti roboanti e ridondanti di chi urla prematuramente al: “fannulloni!”. Sarebbe facile, e sicuramente vantaggioso per chi trae vantaggio nel mantenere un simile stile lavorativo, far ricadere questa nuova tendenza all’interno di un’ormai abusata cornice di svogliatezza e di mancanza di impegno tipica di questi tempi “perduti”, di cui i nostri giovani sarebbero manifestazione diretta. Una semplificazione che è banalizzazione, che affronta il tema  (o meglio che cerca di scansarlo) con lo sguardo tipico di chi rimane in superficie senza andare dentro alle cose, affinchè tutto rimanga esattamente come è. Ma il quiet quitting non è un problema di svogliatezza o di pigrizia, non è una questione che tocca solo i giovani bensì i lavoratori di ogni età, e non è di certo assimilabile ad una perdita di orizzonti. Al contrario, essa nasce proprio dalla volontà di riappropriarsi dei propri orizzonti e della propria vita a 360 gradi, nasce dal bisogno di una maggiore consapevolezza e conoscenza di se stessi - per troppo tempo sacrificate all’altare dell’iperproduttività lavorativa. Il quiet quitting nasce insomma da uno scossone dell’inconscio che reclama il proprio equilibrio tra vita privata e lavoro, fino ad ora troppo sbilanciato verso quest’ultimo: è quel work-life balance su cui come coach insistiamo moltissimo con i nostri clienti, consapevoli che una vita sana e appagante non può prescindere dal mantenere in equilibrio le varie dimensioni del vivere.  

Negli anni del workaholism e delle sue manifestazioni, le maggiori ripercussioni di un simile stile di vita si sono fatte sentire sul fronte della salute e delle relazioni interpersonali: da una parte ciò si è tradotto in  stress cronico, tendenza a stati ansiosi, depressivi, fino al pericoloso bornout, dall’altra ha significato la drammatica riduzione del tempo e della qualità assegnata ai rapporti personali, una dimensione fondamentale del vivere che se eccessivamente trascurata si traduce nella perdita di “senso” e di “significato”, con conseguente allontanamento degli orizzonti della felicità. In moltissimi, pur percependone i sintomi di queste manifestazioni, invece che fermarsi a riflettere hanno scelto di accelerare ancor di più, di buttarsi più a fondo nel lavoro. Solo quando il covid ci ha costretto a fermandoci, a fare i conti con noi stessi imponendoci la domanda delle domande: “è davvero tutto qui?”, solo a quel punto la rivoluzione è avvenuta e ha preso la strada dei licenziamenti di massa, da una parte, e del quiet quitting dall’altra, manifestazioni della voglia di accedere ad un significato più profondo del vivere, più personale e interpersonale. 


COME GOVERNARE LA NUOVA TENDENZA SENZA SUBIRLA: UNA GRANDE SFIDA PER LAVORATORI E AZIENDE  

Ciò premesso, ora si tratta di capire come gestire e governare un fenomeno  potenzialmente positivo arginando i rischi di subire le sue controindicazioni (insite in tutti quei processi che vengono estremizzati  e visti da una sola prospettiva), nella consapevolezza che se da una parte il workaholism si è palesato per ciò che è, ossia una dipendenza, dall’altra parte la perdita di significato, di passione e di impegno nel lavoro che il quiet quitting potrebbe portare con se non è di certo una cosa desiderabile, né per i lavoratori e tantomeno per le aziende.

Il lavoro, infatti, in quanto espressione dell’uomo, delle sue abilità e delle sue competenze, è un’attività nobile (una tra le più nobili in assoluto) oltre che necessaria a mantenerci in salute (soprattutto sul fronte mentale): ci fa sentire realizzati, impegnati, appagati, ci sprona a tirare fuori il nostro meglio e a superare gli ostacoli. Il lavoro è il terreno della crescita, insomma, ma per far sì che esso si manifesti davvero in questo modo è necessario che presenti e mantenga ben saldi determinati requisiti: aderenza a valori in cui ci riconosciamo, aderenza a finalità e obiettivi di cui intendiamo essere promotori, integrazione armonica con le altre aree del vivere in termini di tempo e di priorità. In special modo, il lavoro non può più essere cannibalizzatore di tutto il tempo, deve al contrario coesistere e alle volte anche essere pronto a fare un passo indietro rispetto a bisogni di salute, di relazione e di tempo libero,  quest'ultimo anticamera di quella creatività e libertà che è vero e proprio carburante per il nostro cervello e che può rivelarsi utile – tra l’altro - anche al lavoro stesso (lo hanno ben capito quei Paesi che hanno ridotto la settimana lavorativa, incrementando allo stesso tempo l'efficacia delle prestazioni e la serenità dei lavoratori). 

Le migliori idee, infatti, molto di rado avvengono in ufficio, nell’ordinarietà di una situazione definita e ripetibile. Più spesso accadono “vivendo”, accedendo a relazioni e situazioni che permettono di generare nuove connessioni e nuove soluzioni, permettendo al nostro cervello di operare in modalità  diffusa (diffused mode) che è prerogativa per lo sviluppo di qualsiasi nuova abitudine o una nuova abilità. 

In conclusione, se avremo il coraggio di guardare al quiet quitting per ciò che è davvero (uno slancio di consapevolezza per una vita più appagante su tutti i fronti) invece che relegarlo nei termini di una mera manifestazione di "fancazzismo dilagante", allora potremo imparare a cavalcare questo enorme cambiamento per trarne vantaggi in termini di efficacia, di passione, di impegno e di soddisfazione, non solo nel lavoro ma anche nel lavoro. Non si tratterà più di scegliere tra il "fare troppo" o solo "il minimo indispensabile", ma di imparare a spendersi al meglio, in ogni contesto, nella consapevolezza della varietà  delle dimensioni del vivere.  E' una sfida che implica un cambiamento culturale e che presuppone una riorganizzazione delle priorità e dei bisogni nonché il superamento dell'antagonismo tra vita privata e sfera lavorativa. 


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