IL COACH: CHI E', COSA FA E COME LO FA


Un essere umano al servizio di un altro essere umano. Così descriverei in prima battuta la figura del coach a quanti chiedono delucidazioni su una professione relativamente recente ma che ha radici lontanissime. Tutto qui? Ebbene sì, tutto qui.

E’ questo uno di quegli innumerevoli casi in cui, infatti, meno è meglio. Meno parole per descriverci, meno parole per spiegarci, meno citazioni e frasi ad effetto per arrivare ad un interlocutore (possibile cliente) che non ha bisogno di essere “conquistato” da noi, semmai di essere affiancato. Quando togli il superfluo resta l’essenziale e solo nella valutazione dell’essenziale – ho compreso - possiamo regalare alle persone un’immagine più chiara di ciò che siamo davvero, noi coach, e di cosa possiamo fare per loro.  

Per raccontare quindi il nostro lavoro e spiegare che cosa noi coach possiamo fare, scelgo di partire da ciò che non vogliamo fare: non vogliamo sostituirci al cliente (in gergo tecnico coachee) che si rivolge a noi per raggiungere i suoi obiettivi; non vogliamo indirizzarlo con i nostri riferimenti (che sono nostri, appunto, e quindi non è detto che si adattino anche a lui), non vogliamo assumerci la responsabilità delle sue scelte e tanto meno le redini della sua vita che, al contrario, cercheremo casomai di rendere ben più salda nelle sue mani. E’ questo un punto fondamentale su cui serve la maggiore trasparenza possibile perché nel momento in cui si decide di intraprendere un percorso di coaching, se le premesse sono chiare anche le aspettative non verranno disattese.

Il protagonista del percorso di coaching è e rimane sempre il coachee: il coach affianca e mai, mai si sostituisce a lui, non giudica, non impone il proprio punto di vista o i propri riferimenti. Ben lungi dal volersi spacciare come “maestro di vita”, il coach ha ben presente che nella vita si può insegnare tutto e tutto si può imparare, tranne che la vita stessa. E' un insegnamento che ci viene da lontano, al quale scegliamo di rimanere più che mai vicini. Fu proprio Socrate, il padre antico di quello che è divenuto più recentemente il coaching moderno, a pronunciare la frase “so di non sapere”: un’ammissione, una consapevolezza profonda, un punto di partenza per quei suoi colloqui ma mai una rinuncia ad occuparsene, semmai un ammonimento che tratteggia un perimetro da non sorpassare per nessun motivo: il rispetto dell'altro

Quello che venne quindi definito “metodo socratico”,  e che ancora oggi ispira e sostiene l’attività di noi coach, risultò e risulta determinante nell’accompagnare gli interlocutori (i coachee nel percorso di coaching) alla ricerca delle proprie verità. Verità che sono personalissime e che non possono essere impartite dall'esterno: il coach è quindi un mediatore, un facilitatore, non un dispensatore di saggezza. 

Ma qual è, dunque, questo potentissimo strumento che guidò l’operato di Socrate e che il coaching moderno ha assunto a emblema di se stesso? Il DIALOGO. Dialogo che è l’arte dello scambio, delle parole e dei silenzi, dell’ascolto attivo e completo, del porre le domande giuste, quelle che scavano, che moltiplicano o riducono le opzioni, a seconda del bisogno. Un dialogo che è fatto di elementi cruciali: spiccata attenzione,  empatia, assenza totale di giudizio, volontà di andare dentro alle cose, smettendola di stare sopra alle cose, in superficie.

E’ proprio su questo terreno che si comprende con più chiarezza, infine, chi è il coach: innanzitutto un professionista dell’ascolto, ancor di più un amante dell’ascolto, paladino di uno spazio di attenzione e di reciprocità, in una parola sola di ‘dialogo’, in cui le persone possono (ri)scoprire qualcosa in più  su loro stessi, sui loro bisogni, sui loro obiettivi, sui loro talenti, sulle azioni che intendono o non intendono intraprendere. E,  di conseguenza, possono elaborare, affiancate dal coach stesso, un valido piano di azione per realizzare al meglio i loro progetti.               


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